Voglio fare una premessa, prima di partire con la recensione. A me, i primi due romanzi di Faletti sono piaciuti. Quindi mi sono avvicinata a questo titolo senza alcun pregiudizio. Non sono una persona che rifiuta di leggere un romanzo a priori, perché scritto da un "autore che era un comico cantate e che quindi non sa necessariamente scrivere"; anzi, in più di una occasione mi sono trovata a difendere questa categoria di persone.
Tuttavia, mi spiace dirlo, ma questo romanzo non è assolutamente all’altezza degli altri due. Sotto tutti i punti di vista.
Jim Mackenzie, pilota di aerei per metà indiano, è costretto a ritornare nella sua città natale a causa della morte di suo nonno. Jim ha tentato in tutti i modi di fuggire dalla realtà in cui è cresciuto, ma pare che il destino lo rivoglia indietro. E così, tutto quello che ha cercato di dimenticare negli anni trascorsi lontano da casa, torna prepotente a farsi sentire e a riportare indietro il rimorso e il dolore che per anni aveva cercato di rifuggire e a metterlo di fronte a quelle persone che ha tentato di evitare con tutte le sue forze. Contemporaneamente una strana catena di delitti sconvolge proprio la sua terra natia e ben presto Jim si renderà conto di come tutto quello fa parte del suo destino.
La trama, in realtà, avrebbe potuto essere anche carina, visto che in essa sono presenti alcune delucidazioni proprio sul popolo Navajo a cui Jim appartiene e che mi interessavano molto. Tuttavia, l’interesse per queste nozioni si perde velocemente quando si affronta la lettura. Che può essere definita con un solo aggettivo. Pesante. E noiosa.
Per carità, a me piacciono moltissimo quei romanzi dove dove c’è un’attenta introspezione dei personaggi e l’attenzione ai dettagli. Ma quando questa è troppa, si rischia soltanto per avere l’effetto contrario. Io vorrei ricordare che siamo n un romanzo che è definito un thriller. E un thriller richiede un minimo di azione, di suspence. Periodo brevi, secchi, linguaggio semplice, immediato, che ti toglie il respiro, e ti fa girare le pagine con foga, per capire come finisce il romanzo. Beh, in questa storia non c’è niente di tutto questo. Ci sono lunghe, lunghissime, infinite descrizioni anche sul personaggio più inutile della storia; capitoli e capitoli per parlare di una persona che alla fine morirà e che non darà sarà di alcuna utlilità alla storia; descrizioni troppo, troppo dettagliate di azioni (c’è bisogno di dirmi che i tomi sono così voluminosi che deve fare due viaggi per portarli tutti? A me, cosa importa?) per non risultare noiose. Per non parlare di termini usati nel contesto sbagliato, espressioni barocche anche carine, ma che in un thriller non hanno senso; e se negli altri romanzi queste mi sono anche piaciute, quando si sommano a tante altre cose, diventano anch’esse insopportabili.
A tutto questo, aggiungiamo una tecnica di dialogo che assolutamente non mi piace e che in un thriller non ha senso, perché rende solo ancora più pesante il tutto: usare la forma "Andrea rispose guardandolo negli occhi: «Sì, papà»" , invece di "«Sì, papà»", rispose Andrea, guardandolo negli occhi" non crea attesa in quello che il personaggio sta per dire, ma solo voglia di far tacere l’autore onnisciente. E se considerate che queste interruzioni avvengono in ogni dialogo, con descrizioni più o meno dettagliate di quello che dirà il personaggio, potete capire come alla fine il tutto possa risultare stancante.
A tutto questo, si aggiungono errori anche nel testo: punteggiatura messa molto random, più in punti inutili che dove realmente occorreva, tanto da costringermi a rileggere il testo più volte per capire che cosa realmente volesse dire; e poi, refusi e refusi, come un "ne… né" e una serie di "dà" verbo senza accento, che mi hanno fatto letteralmente accaponare la pelle. Ma una rilettura seria prima di pubblicare, no?
Se a livello stilistico la situazione è tragica, la trama non fa certo migliore figura: la causa delle morti è talmente chiara e lampante che il lettore non si pone neanche il problema, anzi, ci rimane pure male quando scopre di aver avuto ragione fin da subito; non c’è un minimo accenno di pathos, se non per una scena a fine romanzo e anche le scoperte fatte dal protagonista, su se stesso e sugli altri, risultano banali e senza alcuna partecipazionie emotiva, tanto che il lettore ne resta assolutamente indifferente.
Scelta assolutamente infelice è stata anche quella di inserire, ad un certo punto del romanzo, almeno ottanta pagine di flashback, proprio nel punto in cui l’azione sembrava prendere finalmente il via, decretando la fine dell’interesse del lettore.
Il colpo di grazia l’ha dato il finale che, assolutamente, mi è sembrato messo lì giusto per farlo finire in qualche modo, dato che mi è parso un modo un po’ superficiale per risolvere la questione e ha lasciato in sospeso alcune domande a cui non sono riuscita a dare delle risposte.
A me invece questo è piaciuto più del secondo (ma non più di Io uccido, sicuramente!)
Da amante e scrittore di thriller, Faletti è il mio autore/ispirazione italiano preferito. Lo stile di scrittura è impeccabile, mi ammalia, mi travolge e come lui solo Donato Carrisi (che comunque si rifà a lui) è capace di prendermi così. Ho amato “Io uccido” e “Niente di vero tranne gli occhi” è il mio thriller preferito in assoluto dopo il Codice da Vinci (oltre che la mia fonte di ispirazione), ma purtroppo sono pienamente (e ripeto pienamente) in accordo con questa recensione. “Fuori da un evidente destino” è pesante, lento e (sua pecca maggiore) surreale. E si sa che il surrealismo non va molto a braccetto col genere giallo-poliziesco. Mi dispiace molto, ma lo sconsiglio vivamente ai lettori/amanti di Giorgio. Spero di leggere presto “Io sono Dio”, di cui invece mi hanno parlato benissimo.