Manituana è il romanzo più recente del collettivo di scrittori italiani Wu Ming.
Romanzo storico, gli avvenimenti si svolgono nell’America settentrionale, e iniziano nel 1775, quando l’ostilità dei coloni europei contro
Fatta questa premessa, la trama potrebbe essere riassunta in poche frasi: “Il romanzo racconta la lotta del capo mohawk Joseph Brant per salvare il suo popolo dalla distruzione”. Ma sarebbe riduttivo, riduttivo e sbagliato. Perché in Manituana si intrecciano storie su storie, e non si può identificare un protagonista assoluto solo sulla base del numero di pagine ad esso dedicato. I personaggi la cui personalità tiene banco nel corso di tutta l’opera sono almeno quattro: il sopraccitato Joseph Brant, Philip Lacroix, indiano votato ad una vita solitaria dopo il massacro della sua famiglia, che torna a combattere per la sua tribù nonostante mille dubbi e esitazioni, Peter Johnson, il figlio dell’unione tra l’europeo sir William e Molly Brant, ed Esther, figlia di Guy Johnson, il successore di sir William nella carica di commissario per gli Affari indiani. Le storie di questi quattro personaggi si intrecciano continuamente, in particolare quelle di Joseph e Philip, amici, ma ognuna di esse è in sé unica, la descrizione di una evoluzione personale. Non so quanto sia voluto, ma i Wu Ming hanno realizzato, con questi quattro personaggi, un notevole gioco di simmetrie e contrapposizioni: la più ovvia è adulti (Joseph e Philip) vs giovani (Peter e Esther), ma ce n’è almeno un’altra, meno apparente che contrappone chi è votato a un obiettivo più alto, più importante di sé stessi (Joseph che difende il proprio popolo, Peter che combatte nell’esercito inglese contro la ribellione) a chi invece, conscio della confusione, dell’assurdità si può dire, di quel che lo circonda è più ripiegato sull’interiorità (Philip, che si rende conto della spirale di violenza e irrazionalità in cui sta cadendo la sua tribù, Esther che reagisce alla vacuità dell’alta società europea e cerca accoglienza tra i Mohawk). I Wu Ming non prendono posizione, non dicono quali di questi due atteggiamenti sia più giusto, probabilmente perché non ritengono che la verità possa stare solo da una parte: il loro romanzo non è un’opera ideologica che vuole condurre il lettore a farsi delle idee determinate, ma uno strumento che dia consapevolezze, lasciando però a noi il compito di trovare delle risposte.
Lungo le seicento e passa pagine del libro, appaiono molti altri personaggi importanti, su tutti Molly Brant, che è un po’ il raccordo tra gli altri personaggi: moglie di sir William, sorella di Joseph, madre di Peter, è lei ad aver accolto Philip, ancora bambino, tra i Mohawk, è da lei che si reca Esther dopo aver fatto la sua scelta di vita. Odiata e temuta dai ribelli che la credono una strega, ammirata dai bianchi lealisti, è il punto di riferimento per la propria tribù, nel momento in cui il mondo delle Sei Nazioni sta crollando. È uno dei più forti personaggi femminili che mi sia capitato di leggere in un romanzo, i Wu Ming sono stati bravissimi nel tratteggiarne la personalità forte e decisa senza scadere nel clichè della perfezione, dando rilievo anche ai dubbi, alle esitazioni, alle passioni negative, in particolare all’odio per Jonas Klug, uno dei coloni ribelli, particolarmente infido. E poi, bisogna citare almeno alcuni dei personaggi che appaiono solo per pochi capitoli, ma immortalati in ritratti indimenticabili, come Johannes Tekarihoga, sachem ormai alcolizzato ma ancora in grado di opporsi ai ribelli, o lord Warwick, nobile londinese tanto critico della vacuità del suo mondo quanto pronto a parteciparne ai riti.
Il romanzo si divide sostanzialmente in tre parti: la prima si svolge in Nord America, agli inizi della ribellione, nell’ambito delle prime iniziative di indiani e lealisti per reagire contro i coloni. Qui si piantano le basi per tutta la storia, ma si mostra anche il mondo delle Sei Nazioni indiane così com’era ai tempi. Nella seconda parte gli avvenimenti si spostano a Londra, dove Joseph e Philip si recano insieme a Guy Johnson per perorare la causa contro i ribelli: è sicuramente la parte più pittoresca, con le descrizioni delle feste aristocratiche, l’ekfrasi del capolavoro di fuochi d’artificio, le vivide descrizioni dickensiane del sottoproletariato londinese, e soprattutto con i Sohock, il gruppo di malviventi che ritiene di rappresentare gli “indiani di Londra”, e il cui lessico è un omaggio che i Wu Ming fanno ad Arancia Meccanica: non a caso, sulla bocca dell’esaltato capo dei Sohock, gli autori mettono una descrizione critica della società inglese (a rappresentare tutta la società moderna) che probabilmente condividono molto. La terza parte racconta del ritorno in America, con la ribellione ormai in atto e quasi sicura della vittoria; fortissimo il contrasto ambientale con la prima, nel mostrare il crollo delle Sei Nazioni, le violenze dei coloni, lo sbandamento degli indiani, una desolazione che si può quasi toccare con mano.
I Wu Ming hanno pi&ug
rave; volte detto che nei loro romanzi storici sono interessati ai momenti di svolta, ai punti della storia in cui sono possibili diverse evoluzioni. Cosa sarebbe successo, se i lealisti avessero vinto? O se George Washington non avesse dato l’ordine di distruggere tutti i possedimenti indiani? Gli autori vogliono evitare una contrapposizione manichea, con gli indiani “buoni” e vittime da una parte e i coloni “cattivi” e oppressori dall’altra. Ci riescono? Non sempre: per quanto l’opera sia piena di riferimenti che dimostrano come il torto e la virtù siano egualmente distribuiti (tribù indiane che rifiutano di prendere parte o tradiscono le Sei Nazioni, indiani sanguinari, coloni mossi da nobili intenzioni e che rifiutano di considerare inferiori i pellirosse), comunque l’impressione globale è quella di una maggiore indulgenza verso gli indiani; il ritratto di Klug, colono razzista, infido e prevaricatore, è molto più nitido di quello degli indiani traditori, i ribelli “positivi” appaiono poco e non riescono a cancellare l’impressione di un esercito di coloni interessati solo alla soppressione degli indiani. Certo, cercare l’assoluta equidistanza tra le parti avrebbe richiesto degli artifici stilistici che avrebbero appesantito non poco il romanzo, ma credo che questa mancanza sia comunque da sottolineare, non certo per stroncare Manituana, che è sicuramente una delle opere italiane recenti più notevoli (anche dal punto di vista stilistico, davvero d’impatto), ma perché è in fondo l’esempio migliore di quello che i Wu Ming hanno cercato di descrivere nel romanzo, la “grande confusione sotto al cielo” in cui comunque bisogna muoversi, vivere, fare delle scelte.
Romanzo strepitoso; un crescendo d’intrecci e situazioni al limite, che non lasciano alcuna possibilità di ‘distacco’ al lettore. Rapiti in un vortice di sensazioni. il cuore raggiunge la massima consapevolezza di sè, delle sue possibili emozioni, con il dischiudersi della vita de Le grand Diable: «Padrone della vita, è giunto al tuo cospetto un grande guerriero […] il suo nome è Rohaterihonte». Agli occhi non si può impedire di piangere, ma nemmeno di smettere di andare avanti… Il romanzo affascina e fa riflettere; non giudica, ma accoglie l’avvicendarsi di cause ed effetti, come già dati, accaduti. Wu Ming sono geniali: ci auguriamo che non ci facciano attendere molto, abbiamo bisogno dei loro libri per risollevare la pochezza che ci circonda. grazie per questo romanzo.