Traduttore: Guido Gentilli
Editore: Mondadori Genere: (Auto)Biografia
Pagine: 414
ISBN: 9788804453079
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Il nostro voto:
Al principio del 1939 Heinrich Harrer, ex campione di sci e famoso alpinista austriaco, viene scelto per partecipare alla spedizione sul Nanga Parbat. Tornerà in patria solo dopo incredibili avventure: sarà internato in un campo di concentramento, evaderà più volte, riuscendo a penetrare in terre mai visitate da un occidentale, ma soprattutto, nei sette anni della sua permanenza in Tibet, conoscerà e sarà conquistato da una cultura antica e affascinante, di cui diventerà il paladino.
Sette anni nel Tibet non è solo l’autobiografia di Harrer: è anche una toccante testimonianza di ciò che era il Tibet prima dell’invasione cinese che ha costretto il Dalai Lama all’esilio e che ha sistematicamente distrutto i simboli della cultura e della religione tibetana.
Il resoconto di Harrer inizia nel 1939, quando grazie alle sue doti di sportivo e alpinista viene invitato a partecipare alla spedizione sul Nanga Parbat. Qui però viene catturato e imprigionato in un campo inglese in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale. Harrer però è uno spirito libero, la prigionia gli sta stretta, e cerca di evadere più delle volte dal campo: e il suo secondo tentativo ha successo, e riesce a penetrare nel Tibet, dove lui e l’amico che lo accompagna, Aufschnaiter, incontreranno numerose difficoltà e dovranno quindi aguzzare l’ingegno per ottenere il permesso di rimanere nel Tibet e di giungere alla città santa, Lhasa, dove tradizionalmente risiede il Dalai Lama. Gran parte del libro racconta delle disavventure dell’autore e del suo amico, di come siano riusciti ad attraversare il Tibet anche nelle peggiori condizioni meteorologiche, e di come siano infine giunti a Lhasa, dove la pietà e la compassione dei cittadini si trasforma via via in accettazione. Il libro è anche costellato dalla descrizione degli scenari naturali, dei monasteri, e degli usi e costumi del popolo. Si scopre quindi l’atteggiamento dei tibetani nei confronti della morte, il modo in cui affrontano il lutto, il modo in cui trattano gli animali, e la venerazione a tratti toccante per il proprio dio-re, il Dalai Lama. Harrer racconta con l’occhio dell’europeo ciò che vede, la superstizione del popolo, la sua incrollabile fede negli dei, negli oracoli e nei buoni e cattivi presagi, descrive lo sfarzo pesante delle feste e delle cerimonie, e osserva l’incredibile tolleranza dei tibetani nei confronti delle altre religioni. Harrer arriverà, alla fine, a diventare amico del Dalai Lama, che, ancora bambino, ne seguiva gli spostamenti e le opere con un binocolo: e godrà per questo di svariati privilegi che cesseranno di colpo quando la minaccia dell’invasione cinese si farà pressante.
La parte finale del libro è commovente. L’invasione delle truppe cinesi e gli accordi di facciata colpiscono il lettore che ha imparato ad amare questo Paese inesplorato e la sua gente pacifica, anche se poco progredita. Le ultimissime pagine descrivono gli avvenimenti storici che si sono susseguiti in Tibet, con la lotta per libertà del popolo, con la difesa incredibile e toccante di migliaia di tibetani che si schierano davanti all’ingresso della residenza estiva del Dalai Lama per impedirne il rapimento o, peggio, l’assassinio da parte delle autorità cinesi, un muro umano che verrà trucidato ma che ha permesso al Dalai Lama di fuggire in India, dove ancora oggi si trova il governo in esilio. Sono pagine forti, che raccontano dei milioni di morti, delle migliaia di monasteri distrutti, di quello che di fatto è ciò che il Dalai Lama stesso ha definito “genocidio culturale”. L’epilogo in particolare, scritto nel 1996, spiega come della Lhasa descritta nel corso del libro sia rimasto poco e nulla. In questo senso, anche Harrer ha contribuito a lottare per la causa del Tibet, facendo conoscere al mondo il Paese che lui visitò e che ora è quasi irriconoscibile. Sono pagine forti anche perché si può leggere una sorta di indifferenza del resto del mondo nei confronti nel Tibet: Harrer spiega come, nel 1996, la Commissione per i diritti umani condannò sei nazioni, ma tra queste non figurava la Cina. Fino ad ora il Tibet ha ricevuto manifestazioni di solidarietà, manifestazioni di stima e rispetto nella figura del Dalai Lama, promesse a cui però non seguono azioni.
Lo stile del libro non è certo accattivante, e del resto non è nelle intenzioni dell’autore che lo sia: si limita ad esporre i fatti, e ci pensa la cultura e il Paese che descrive a rendere il tutto affascinante. I pochi fronzoli che l’autore si concede rendono forse il testo ancora più incisivo.
Credo sia importante leggere questo libro, per capire anche gli avvenimenti dei giorni nostri.
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