Traduttore: Roberta Tatafiore
Editore: Mondadori Genere: (Auto)Biografia
Pagine: 360
ISBN: 9788846200785
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Il nostro voto:
Christiane F. racconta con il linguaggio crudo e diretto delle interviste registrate al magnetofono la sua storia e quella dei suoi coetanei, sullo sfondo di una Berlino dove i quartieri-dormitorio e le discoteche sono simili a quelli di ogni grande città europea. E' la storia di una precoce discesa nel mondo della droga e della faticosa risalita, documentata come un servizio giornalistico, sofferta come un diario personale, da cui nasce convinzione che la soluzione del problema della droga è lontana ma possibile. Il dramma di Christiane F. è diventato in Germania un caso esemplare (è entrato addirittura nelle antologie scolastiche): un testo discusso da medici, insegnanti, operatori sociali, e che ha coinvolto profondamente anche il grande pubblico attraverso le immagini del film che ne è stato tratto.
Arrivare a 27 anni e leggere questo libro è stato strano. Negli anni in cui io ero adolescente, o comunque quando andavo alle medie, il libro anti-droga era Alice: i giorni della droga. Ho scoperto questo libro solo al liceo, e solo oggi sono arrivata a leggerlo (grazie a un bookring).
Da una parte ne sono felice: so che se l’avessi letto a 14, 15 anni ne avrei capito poco, e sarei rimasta come bloccata dalla crudezza di quello che viene raccontato e di come viene raccontato. Credo che la storia sia nota quasi a tutti: si tratta della testimonianza di Christiane raccolta in seguito ad un processo in cui la ragazza era testimone, e poi pubblicata. Christiane non va certo il sottile, né con il linguaggio, né con ciò che racconta: è incredibilmente sincera, onesta, e profonda, nelle riflessioni che fa, nelle cose che racconta, nella sua consapevolezza che la droga è merda eppure ci si torna sempre. La cosa che più mi ha colpito è l’incredibile consapevolezza degli eroinomani descritti nel libro, che mettono in guardia gli altri dall’evitare l’eroina ma poi vanno alla Bahnhof Zoo per prostituirsi e poterla comprare.
La storia di Christiane è tragica fin dall’inizio, con un’infanzia stroncata da adulti che non lasciano che i bambini giochino, e si divertano. La descrizione dei primi anni in città è triste, perché presenta gruppi di bambini che non sanno come giocare, che non sanno come essere bambini, a cui viene impedito di essere bambini. Per Christiane si aggiunge anche la difficoltà di una famiglia non certo idilliaca.
A 12 anni Christiane inizia a consumare droghe leggere. Ci descrive ciò che prova, il suo desiderio di appartenere a questo gruppo che le pare fighissimo, il suo terrore delle droghe e poi la sua accettazione come prezzo da pagare per far parte dei fighissimi. Da lì la strada sembra in discesa, e la porta più tardi all’eroina, alla Bahnhof Zoo, la stazione della metropolitana di Berlino in cui i bucomani si prostituiscono e si riforniscono dagli spacciatori, e poi a tutta quella serie di disintossicazioni che saranno soltanto illusioni. Leggere certe scene descritte è pesante, ma pensare che a viverle sia stata una ragazzina di 13, 14 anni (con amiche della sua stessa età) è ancora più difficile, perché a volte le considerazioni di Christiane, le sue riflessioni sulla società in cui vive, sulla droga, sui suoi amici oramai morti per l’eroina sono profonde e ci si dimentica che a parlare è poco più di una bambina.
La narrazione a volte è interrotta dalla voce della madre, del padre, di chi è stato a contatto, in un modo o nell’altro, con Christiane, e il quadro si fa, se possibile, anche più desolante. L’eroina non è solo il buco, la necessità di tramutare tutto in marchi che si tramutano in quartini da spararsi in vena con siringhe malconce che vengono pulite nei bagni, non è solo la prostituzione: è anche la tragica realtà degli scarsi posti per le terapie di disintossicazione, della scarsa informazione dei genitori, del governo che affronta il problema sottovalutandolo, della madre che non sa a chi rivolgersi perché le risposte son sempre quelle. E’ anche il dramma dei genitori che si rendono conto d’aver fallito, il dramma intimo di uscire di casa dopo la disintossicazione e non avere posti in cui andare e in cui non giri droga, il dramma di queste ragazzine poco più che bambine che a volte vanno a letto con adulti che sfruttano la loro dipendenza. E’ il loro essere marchiati a vita come i ragazzi drogati, i ragazzi che hanno fatto marchette alla stazione o sono andati a battere con gli automobilisti.
Si tratta di un libro assolutamente duro da leggere e da digerire, ma è anche il ritratto di una situazione che è difficile accettare. Ci sono stati momenti in cui ho sentito disgusto, momenti in cui ho sentito rabbia, delusione, momenti in cui mi sono commossa perché in Christiane a tratti riaffiora un’ingenuità delicata, quasi infantile. Le pagine finali sono bellissime per quello che raccontano, per la mente che fanno intravedere.
Cercando notizie in rete sull’autrice, ho scoperto che è rimasta nuovamente invischiata nel circolo vizioso eroina-prostituzione anni dopo le vicende del libro, e che ha iniziato ad assumere metadone quotidianamente quando è nato suo figlio. Christiane, che si ripeteva che lei ci sapeva fare la roba, che lei poteva smettere quando voleva, che non ne era dipendente, ha capito che era troppo fragile per non esserne riattratta. La droga ha comunque lasciato sul suo corpo segni indelebili, come una forma di epatite cronica che la affligge già nel corso del libro.
Non mi sento di consigliarlo, né di sconsigliarlo. Sento di poter dire che va letto quando si sa di poter reggere alla sua crudezza, alla sua volgarità, alla sua “bassezza” se vogliamo, senza emettere giudizi di sorta sulle persone coinvolte.
I nostri voti | |
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Personaggi | |
Stile | |
Ritmo | |
Copertina | |
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