Traduttore: Anita Rho
Editore: Einaudi Genere: Classici
Pagine: 98
ISBN: 9788806116972
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Il nostro voto:
Il famoso scrittore tedesco Gustav Aschenbach, che ha basato la sua vita e l'intera opera sulla piú ostinata fedeltà ai canoni classici dell'estetica e dell'etica, è spinto a Venezia da un misterioso impulso. Nell'attimo in cui balena sulla spiaggia del Lido la spietata bellezza del ragazzo polacco Tadzio, Aschenbach avverte il definitivo segno del destino: l'anelito allo sfacelo. La morte a Venezia (1913), oltre che un romanzo, è una cerimonia.
La morte a Venezia, brevissimo romanzo di Thomas Mann, pubblicato nel 1912, è una delle sue opere più conosciute, grazie anche alla trasposizione cinematografica di Luchino Visconti.
È un romanzo sull’arte e sulle contrapposizioni che scaturiscono da essa. L’arte può essere sia decadenza che prosperità, sia dolore che gioia, sia solitudine che compagnia.
La vicenda ruota attorno alla figura di Gustav Von Aschenbach, anziano scrittore che, dopo una vita dedicata interamente alla letteratura, prova l’irrefrenabile desiderio di viaggiare e di fare nuove esperienze.
… fin da giovane l’incontentabilità gli era sembrata l’essenza e l’intima natura del talento letterario: per amor suo, aveva messo le briglie al sentimento, l’aveva intorpidito, ben sapendo c’esso inclina ad appagarsi di uno spensierato suppergiù e di una mezza perfezione. […] Non che i suoi prodotti fossero scadenti; questo, almeno, era il vantaggio dell’età – di sentirsi nel tranquillo, sereno possesso della maestria propria. Ma, di questa maestria che la nazione ammirava, egli aveva perduto il sapore, come se all’opera finita mancasse il suggello dell’estro impetuosamente giulivo che, figlio della gioia, fa a sua volta – più di qualunque contenuto intrinseco, più di qualunque pregio assoluto – la gioia di un pubblico ammirante.
Aschenbach incarna un artista, isolato, incapace di rapportarsi agli altri, completamente assorbito dal proprio lavoro. Egli vive nella sua dimensione, fatta di sacrifici e di arte. Lavora metodicamente, dedicando alla scrittura buona parte del suo tempo.
«Vedete, Aschenbach è sempre vissuto così», e fece pugno della mano sinistra, «mai così», e lasciò la mano aperta penzolare comodamente dalla spalliera.
Attirato da un impellente bisogno di viaggiare, l’anziano scrittore parte per Venezia: una città assai celebre per le proprie attrattive e che aveva visitato già in passato – come si desume dalla lettura.
Nella città lagunare, alloggia in un albergo piuttosto rinomato, meta di turisti provenienti da tutta Europa. Attento osservatore, Aschenbach è immediatamente colpito da un giovinetto polacco, di straordinaria bellezza.
Il giovane – che si chiama Tadzio – diventa il principale oggetto delle attenzioni dell’anziano scrittore colpito nell’animo dalla sua grazia e bellezza. Il sentimento che egli nutre nei confronti del ragazzetto, assomiglia molto a quell’estasi classica descritta dai filosofi greci al cospetto della Bellezza. Tadzio è bellezza. Pura, semplice, immacolata. Una perfetta manifestazione di dio, davanti alla quale l’artista non può rimanere indifferente.
La sua aspirazione profonda era di lavorare in presenza di Tadzio, di prendere a modello di scrittura le sue forme, d’imporre allo stile di seguire le linee di un corpo che sembrava divino, di sollevarne la bellezza nel mondo dello spirito come già l’aquila aveva sollevato nell’etere il pastorello di Troia.
La morte a Venezia però, non si riduce unicamente all’ossessione dell’anziano scrittore per Tadzio – che ci regalerà dei brani d’incredibile maestria, dal sapore squisitamente classico -. Strani avvisi e manifesti iniziano ad essere affissi per le vie della città. La gente del luogo si fa vaga ed evita di rispondere a qualsiasi domanda in proposito. Mann è molto bravo a descrivere l’atteggiamento della popolazione locale nei confronti degli stranieri: quel desiderio di far intendere che nulla è cambiato, che tutto va bene e che nessuna minaccia incombe sulla città, anche se i fatti sono ben diversi.
Chiunque sarebbe quanto meno allarmato dalla situazione, ma non Aschenbach. Egli sente con la città una comunanza data dal fatto che entrambi possiedono un segreto terribile da difendere: è un po’ come se la malattia che aleggia per le vie di Venezia, attenui la malattia del suo cuore.
Più volte la ragione cercherà di farlo rinsavire, ma tutte le volte Aschenbach troverà ottime motivazioni per metterla a tacere.
Mann ci descrive, nell’ultima parte del libro, un uomo completamente immerso nella propria passione amorosa, sia per quanto riguarda gli atti, che i pensieri. Aschenbach è ormai una vittima completa di se stesso, del sentimento che nutre per Tadzio. È una passione a senso unico, platonica, che si nutre unicamente di sguardi, caratterizzata da tutti quegli atti, propri dell’innamoramento: la continua ricerca dell’oggetto amato, i languori ad ogni suo sguardo, la maggiore cura di sé e del proprio aspetto fisico.
Dopo l’introduzione del male che affligge Venezia, la malattia della città e quella di Aschenbach procedono di pari passo, alternandosi, confrontandosi.
Le ultime pagine – quelle del sogno di Aschenbach e dei suoi ultimi pensieri per Tadzio – sono a mio avviso le migliori di tutto il libro.
La presenza di pochi dialoghi sposta l’asse verso l’aspetto descrittivo e introspettivo, dove Mann riesce a regalarci ottimi brani, soprattutto per quanto riguarda le digressioni sulla “bellezza”. Breve e intenso. Un’analisi approfondita, ma allo stesso tempo, non pesante, dell’artista, della sua incomunicabilità con il mondo e del suo bisogno di sentirsi vivo. È singolare notare come Aschenbach abbia imparato a vivere in mezzo alla morte, ma forse era proprio questo l’intento di Mann. – Ovviamente, è molto più plausibile che la sottoscritta abbia preso un abbaglio. Ma ciò non toglie, che il libro merita davvero. Tra l’altro, ho notato una cosa che m’ha colpito: Mann, per riferirsi ad Aschenbach, fa un largo uso di sostantivi generici come “lo sconosciuto”, “il solitario”… ed è quasi come se, in questo modo, lo privasse della propria individualità. O almeno questa è la mia idea. –
Thomas Mann, con l’avventura di Gustav von Aschenbach, ci ha regalato una bella metafora che mette in luce sia l’errata concezione di bellezza lontana dai sensi – il sentimento di Aschenbach non è solo ideale, ma anche fisico -, sia la corruzione della società borghese, i cui valori si erano avviati verso una crisi inesorabile.
Un romanzo sull’ambiguità, sul compiacimento dell’artista riguardo alla propria diversità, il cui prezzo è, l’isolamento, prima e, la morte dopo.
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