Traduttore: Roberta Zuppet
Editore: Rizzoli Genere: Saggistica
Pagine: 396
ISBN: 9788817011808
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Il nostro voto:
L'unica raccolta completa delle tragedie di Eschilo andò bruciata con il resto della biblioteca di Alessandria nel 640, a causa di un califfo che riteneva blasfeme le opere in contrasto con la Parola di Allah e superflue le altre. In preda a un delirio religioso, Gogol’ bruciò di propria mano il seguito delle Anime morte. Le memorie di Lord Byron furono invece distrutte dal suo editore, spaventato dallo scandalo che avrebbero suscitato.La storia della letteratura è fatta anche di libri perduti per sempre. In questo affascinante volume, Stuart Kelly racconta le decine di modi, tragici o bizzarri, in cui un capolavoro può scomparire. Sotto un certo aspetto – afferma – un libro perduto diventa molto più intrigante, perché vive nell’unica dimensione in cui un’opera può essere perfetta: quella dell’immaginazione.E anche se oggi siamo quasi incapaci di credere all’eventualità di una perdita di quanto viene scritto e conservato con i mezzi offerti dalla tecnologia moderna, dobbiamo avere l’umiltà di ammettere che la letteratura non è necessariamente destinata a sopravvivere. Ma, nonostante questo, un’opera non perde il suo senso o il suo significato: “Ogni vita umana produce un’eco, provoca un cambiamento e influenza il nostro modo di pensare e sentire anche dopo la morte della persona specifica, e lo stesso vale anche per la nostra cultura”.Il libro dei libri perduti è una storia alternativa della letteratura, un epitaffio, un’elegia a ciò che sarebbe potuto essere. Un libro che rende giustizia alle tante opere distrutte, scomparse, dimenticate.
Vi siete mai chiesti se dell’autore che state leggendo in questo momento non sia andato perduto qualcosa? Vi siete mai chiesti quanti e quali capolavori della letteratura non potete leggere perché, semplicemente, sono stati divorati dalle fiamme – a volte per volontà dello stesso autore, altre per semplici incidenti – sono stati smarriti o, addirittura, non sono mai stati scritti e non soltanto per cause di forza maggiore?
Ebbene, se ve lo siete chiesti, Il libro dei libri perduti è il saggio che fa per voi. Se non ve lo siete mai chiesti, fidatevi e leggetelo comunque: scoprirete cose bellissime e magari vi nascerà un po’ di istinto di ricerca.
Il saggio, come spiega l’autore nell’introduzione, nasce dalla sua passione per la lettura e soprattutto dalla sua curiosità verso ciò che non può leggere: e da qui si dipana il suo percorso di ricerca che culmina nella stesura di libro. In realtà, il concetto di perdita di Stuart Kelly è da intendersi in senso lato: non sono inclusi, infatti, soltanto i libri che non possiamo leggere perché sono andati fisicamente perduti, com’è il caso di svariati autori dell’antichità. Sono inclusi anche i libri incompiuti e quelli che, per qualche motivo, non sono stati scritti. In questi ultimi casi non si parla soltanto di quei libri interrotti e/o non scritti per morte dell’autore: in certi casi abbiamo davanti anche libri che, semplicemente, sono stati ideati, discussi in carteggi, ma poi abbandonati. È un concetto che, stando ad alcune recensioni che ho letto, ha scocciato qualcuno; ovviamente, la tesi che va per la maggiore è che, se mi vendi un libro che parla di libri perduti, mi aspetto che mi parli di quelli effettivamente perduti. Io personalmente ho accettato senza problemi la visione personale dell’autore, ma sinceramente non ho condiviso alcune sue scelte. Ma di questo parliamo più tardi.
Il saggio si articola in più di sessanta capitoli, ciascuno dedicato a un solo autore e non alla singola opera perduta. Come c’è da aspettarsi, si parte con la letteratura antica; il primo capitolo è anzi dedicato a tutti gli autori anonimi, idea che personalmente ho apprezzato moltissimo. E poi, in ordine cronologico, arriviamo alla letteratura più recente. Ogni capitolo è piuttosto breve – mai più di qualche pagina – e in questo senso si presta benissimo anche come manuale da consultazione: si può leggerlo a spizzichi e bocconi, magari in concomitanza alla lettura degli autori lì citati. Anche letto tutto d’un fiato, però, non è pesante, scorre bene e la brevità dei capitoli, nonché lo stile dell’autore, accattivante, particolare nella scelta dei paragoni, il suo utilizzo degli aneddoti, concorre a rendere la lettura più scorrevole, nonostante non si tratti per nulla di un saggio leggero, tutt’altro.
Ovviamente, non c’è da aspettarsi di ritrovare nel libro ogni singolo autore di cui si è perso qualcosa; il saggio sarebbe lunghissimo, la ricerca alla sua base infinita, e quindi dobbiamo partire con l’idea di essere davanti a una cernita che, con tutta probabilità, segue i gusti dell’autore da una parte e i sentieri obbligati tracciati dalla ricerca dall’altra. Ecco, è sulla scelta degli autori da includere – e di riflesso, quella degli autori da escludere – che ho qualche perplessità. Per fare un esempio pratico, l’autore ha incluso un capitolo su Dante Alighieri. Lusinghiero per noi italiani, ovviamente, ma di fatto questo capitolo racconta il ritrovamento degli ultimi canti del Paradiso da parte del figlio di Dante, Jacopo, otto mesi dopo la morte del padre, così come lo raccontò Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante. Ora, posso capire cosa stesse dietro a questa scelta; quei tredici canti non si trovavano, erano perduti, appunto, ma poi grazie a un sogno premonitore, se vogliamo credere a Boccaccio, furono ritrovati. Ma è questo che mi spiazza, che sono stati ritrovati. Non capisco la necessità di inserire questo episodio in un libro che, stando al titolo, mi promette una storia parallela della letteratura riguardante ciò che non posso più leggere. E io il Paradiso di Dante posso leggerlo. Possiamo disquisire sul fatto che, forse, Dante volesse lavorare ancora su quei canti, attendere a renderli pubblici, limarli… ma in ogni caso, e comunque quei canti siano stati trovati, oggi il Paradiso è completo. Inserirlo in un libro che vuole presentarci i libri perduti mi è sembrata una scelta poco condivisibile, soprattutto perché alla letteratura latina, ad esempio, sono dedicati solo due capitoli (Ovidio e i Cesari… sì, tutti i Cesari!) e qualche fuggevolissima citazione nell’introduzione. Non so, vista la mole di autori esclusi, e visto anche l’ampio spazio dedicato alla letteratura greca rispetto a quella latina, mi è sembrato che includere anche Dante non abbia avuto molto senso, tanto più che non fa altro che riportare un episodio che penso conosciamo tutti. Considerazione da italiana, lo so, la Divina Commedia non viene studiata all’estero come la studiamo noi, sta di fatto che non ho condiviso questa scelta. Mi ha infastidita invece molto meno quando ha parlato di opere incompiute (vedi il capitolo su Jane Austen e quello su Kafka, che ho trovato meraviglioso), e anche quando ha presentato opere che sono state ideate e poi non scritte (vedi il capitolo su Alexander Pope, e sugli otto versi del suo poema epico che non terminò mai). In fin dei conti, accettando il concetto di perdita che l’autore presenta, questi sono libri perduti: anche solo in parte, ma perduti. Certo, spingersi a definirli capolavori a prescindere mi pare esagerato, però sarebbe stato bello vedere come Kafka pensava di far finire Il castello, o Il processo, o come Pope avrebbe realizzato la sua idea sul Brutus.
Una cosa su cui ho sentimenti contrastanti riguardo a questo saggio è la totale mancanza di bibliografia, note a piè di pagina e lista delle opere citate. A questo proposito c’è una nota nell’introduzione: l’autore spiega che gli pareva ironico inserire note e bibliografie che avrebbero portato a vicoli ciechi, e quindi ha pensato che fosse più interessante lasciare al lettore tutta l’opera di ricerca. Come lettrice l’idea mi affascina. Come amante delle bibliografie, invece, non apprezzo; prima di tutto questo può spiazzare il lettore, perché fa dipendere tutto tantissimo dalla disponibilità di determinati testi nelle biblioteche della propria zona. L’autore cita alcuni titoli – per lo più enciclopedie e storie della letteratura – che non so se si trovino nelle biblioteche italiane. E comunque, si rischia di non trovare affatto quello che invece ha trovato lui… e io muoio davvero dalla voglia di sapere dove ha trovato quella sfilza di aneddoti interessantissimi di cui ha infarcito il suo saggio. Non è una questione di ‘volere la pappa pronta’, come si suol dire… è anche e soprattutto il riconoscimento del lavoro altrui che, in qualche modo, ha permesso a lui di fare il suo, di arrivare a quella composizione. Ho sentito tantissimo la mancanza di una bibliografia, o almeno delle note a piè di pagina che indicassero anche solo da dove era stata presa la citazione del momento; in un libro del genere, penso che il lettore parta già con l’idea che qualsiasi ricerca decida di fare per conto suo sarà destinata prima a poi a imbattersi nella perdita definitiva della traccia. La giustificazione che tutto sarebbe andato a finire in vicoli ciechi, a mio modo di vedere, cozza con le premesse del libro: se mi presenti un libro sulla letteratura ormai definitivamente perduta, non posso certo aspettarmi di trovare testi che analizzino opere che sono state lette per l’ultima volta secoli fa, ecco. In ogni caso, almeno una lista delle opere che ci sono pervenute e che l’autore cita poteva essere inserita; i capitoli sono brevi e non è difficilissimo trovarle, ma non credo che una lista avrebbe ucciso qualcuno. Rimpiango comunque la bibliografia.
In definitiva, se vi piace la saggistica, se ve la sentite di affrontare il possibile desiderio di imbarcarvi in una ricerca che non porterà a nulla di certo, e se non vi spaventa la mole di libri che non leggerete perché non esistono più e/o non sono mai esistiti, questo è il libro per voi. Devo dire che mi ha dato svariati spunti di lettura, e questo è sempre e indubbiamente un merito. Scorre bene e vi farà sembrare leggero un saggio che, in realtà, è zeppo di informazioni e spunti. Per me è da non perdere, e non è un gioco di parole.
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