“Dance Dance Dance”, noir dell’autore giapponese Haruki Muratami, è un romanzo che colpisce per la capacità di muoversi attraverso due piani di esistenza, uno reale, quotidiano, tangibile, l’altro irreale, onirico, intimo – ma narrato in modo tale da sembrare vero, tanto quanto l’altro, per l’ottima caratterizzazione dei personaggi, sfaccettati come prismi di cristallo, per la trama per nulla banale che, pur affrontando uno delle tematiche classiche della letteratura – il viaggio dentro sé stessi – lo fa in un modo molto originale.
Del protagonista, Murakami ci nasconde, volutamente il nome: sappiamo che ha passato i trent’anni, che vive da solo, che è un giornalista free-lance, che ha vissuto per un certo periodo con una certa Kiki, che ha da parte un po’ di denaro con il quale può vivere senza problemi per diversi mesi, che è divorziato, e reduce di qualche storia più o meno seria. La sua condizione è stabilmente confusa. Arenata – in un certo senso. Egli, più che vivere, sembra sopravvivere a un ritmo confuso e quasi inesistente.
La storia ha inizio con un sogno del protagonista: Kiki piange in un vecchio albergo di Sapporo. Il protagonista – non conoscendone il nome, devo per forza usare termini generici – convinto che lo stia cercando, si reca a Sapporo, presso l’Albergo Delfino (luogo dove conobbe Kiki). Arrivato, scopre che al posto del fatiscente alberghetto sorge un lussuoso hotel che, pur essendo completamente diverso dal precedente edificio, ne conserva ancora il nome.
La storia comincia a tingersi di “giallo”: che fine ha fatto il vecchio albergo? Dov’è finito il proprietario? Perché è stato mantenuto lo stesso nome? E soprattutto, dov’è Kiki?
Convinto che il “Dolphin Hotel†nasconda un segreto, comincia ad indagare per conto proprio, ma il personale dell’albergo si mostra assai reticente a fornirgli delle informazioni.
L’unica a fornirgli una pista è una ragazza della reception, dalla quale apprende la sconcertante notizia dell’esistenza di un misterioso piano fantasma: una specie di altra dimensione a cui si accede, per caso, raggiungendo uno degli ultimi piani.
Con l’ingresso del protagonista in questa misteriosa dimensione, comincia la sua “danzaâ€. Qui, egli incontra il misterioso uomo pecora che lo invita a danzare sempre, a muoversi nonostante tutto, a dare libero sfogo alla sua essenza e gli spiega che tutto è indissolubilmente collegato.
Tutto è collegato per mezzo dell’albergo e in particolare, tutto passa attraverso l’uomo pecora. Personaggio reale? Fantastico? Frutto d’immaginazione? Alter ego del protagonista? Non ci è dato saperlo.
Su richiesta della sua amica receptionista, accetta di portare con sé, durante il viaggio di ritorno a Tokyo, Yuki, una ragazzina “dimenticata†al Dolphin dalla madre fotografa. Con Yuki riesce ad instaurare una bella amicizia, nonostante il carattere introverso della ragazzina, grazie alla sua decisione di trattarla come un’adulta e a parlarle come tale, facendo finta che i suoi tredici anni siano tali solo sulla carta.
A Tokyo rincontra un vecchio compagno di scuola, il classico ragazzo-perfetto: bello, raffinato, bravo negli sport, e nelle materie scolastiche, amato da tutte e tutti, mamme e professori compresi – un perfetto Gary Stu se fossimo in ambito fanfiction 😛 – Riacquisteranno i rapporti e insieme si troveranno invischiati in una faccenda tutt’altro che pulita.
Da occidentali, se non si ha dimestichezza con la cultura nipponica, può risultare poco agevole la lettura di questo libro. Bisogna mettersi in sintonia con il modo di pensare tipico del sol levante e con il loro modo di narrare che, a mio avviso, strizza, un po’, l’occhio al “manga”. C’è pertanto una forte componente surreale, senza che si avverta il “salto” in un mondo “fantastico”.
L’intero romanzo è narrato dalla voce del protagonista e trova il suo punto di forza nella prosa incisiva e semplice. Periodi brevi caratterizzati da un lessico semplice, descrizioni istantanee, dialoghi lievemente assurdi. La storia, all’inizia un po’ frammentaria e quasi senza senso, man mano comincia a delinearsi, parallelamente alla presa di coscienza del protagonista.
Muratami non cura soltanto il protagonista, ma anche i personaggi secondari, dando ad ognuno la sua dimensione e la possibilità di essere “visto†dal lettore, in quanto ognuno brilla di luce propria e non in virtù del suo rapporto con il protagonista. Yuki su tutti.
Importante poi è il rapporto del protagonista con la musica. Essa è diffusa nei corridoi dell’albergo, sputata fuori dall’autoradio mentre sfreccia sull’autostrada, ascoltata da Yuki con il walkman per isolarsi dal mondo … All’inizio, il protagonista sembra detestare e trovare stupidi quasi tutti gli artisti nominati, da Tom Jones a Phil Collins, da Micheal Jackson alle Bananarama. Ma, con l’inizio della “danzaâ€, la musica inizierà a cambiare, ad essere più in sintonia con lui, arricchendosi di artisti come Talking Heads, Sam Cooke, Elvis, Stones e i Beach Boys.
La musica è l’anima del libro e della vita stessa. Chi è abituato a sentirla spesso, sa quando una canzone possa risvegliare ricordi assopiti, far rivivere emozioni, situazioni passate. E grazie ad essa si riesce ad essere sempre connessi a noi stessi e a ciò che ci circonda e allora… se la musica è così importante, perché non danzare senza farsi domande, senza smettere? In fondo, non è anche questo un bel modo di vivere?