Premessa: io adoro Pennac. Me ne sono innamorata fin dai tempi di Come un romanzo e l’amore persiste tuttora. E credo proprio che anche Diario di scuola avrà lo stesso successo, perchè non è una storia, non è un romanzo, non c’è una trama: è appunto un diario senza date, in cui il passato da somaro si fonde col presente di romanziere famoso e insegnante che va a cercare i somari e tirarli fuori dalla “discarica di Gibuti”.
Il tema è abbastanza “scottante” se vogliamo, soprattutto in un periodo in cui alla scuola si attribuiscono tante colpe e pochi meriti. Il libro di Pennac non è una difesa della scuola, è anzi un’appassionata dichiarazione di amore per il lavoro di insegnante; per un lavoro che ti porta davanti a decine di studenti all’anno, tra cui trovi i primi della classe, che non hanno mai un fallimento, e i somari, svogliati, a cui “mancano le basi” che sarebbe tanto più facile lasciare nell’ignoranza, ma che devi riportare alla passione per lo studio proprio perchè sei il loro insegnante. Pennac parla da persona che ha avuto un passato da asino, abbonato allo zero, di cui gli insegnanti scrivevano che mancava di basi e che “il terzo trimestre sarà decisivo!”: e racconta degli insegnanti che lo hanno salvato, del collegio che lo ha aiutato, della lettera di suo padre al “Professor Pennac”, delle madri disperate che gli telefonano per chiedere che i loro figli – espulsi, bocciati, quel che è – vengano accettati da qualche parte. Penna racconta di sè come insegnante, votato al recupero di coloro che, in terza media, arrivano con lo 0 fisso in dettato, e che porta finalmente ad avere la sufficienza, un traguardo che sembrava impossibile. Anche analizzando espressioni come “non ci arrivo”, “non me ne frega niente”, costringendo gli studenti a dare un nome a quel ci e a quel ne, coltivando la loro memoria riempiendola di testi da imparare, uno alla settimana, da sapere sempre non ripetere a pappagallo, ma restituire al loro significato pronunciandoli. Il tutto senza nascondere dei fallimenti, dei ragazzi non recuperati, dei propri non ci arrivo di insegnante. Il tutto con lo stile inconfondibile di questo autore: con l’ironia, le osservazioni serie in mezzo a frasi che ti fan ridere, con l’esperienza personale che rende tutto questo diario tanto più vero. E poi l’analisi delle “colpe” della scuola: ma è proprio vero che sono solo i ragazzi della periferia a dare un cattivo esempio della scuola d’oggi?
E Pennac inizia a raccontare di quando è stato invitato, in queste scuole, del fuoco di domande sui suoi libri, delle conversazioni interessanti, delle osservazioni argute, di tutto ciò che gli è stato chiesto e che non era preparato, e delle decine di insegnanti che amano il loro lavoro e si impegnano affinchè i propri studenti amino lo studio, la materia, i testi: come gli studenti di Pennac, con le loro gare di memoria, con la loro capacità di ripetere un testo di Rousseau una volta con tono enfatico, una volta rabbioso, una volta melenso e così via.
Insomma, la scuola vista da chi, a scuola, preferirebbe non andarci; la scuola degli insegnanti che amano insegnare, incarnano la propria materia, e riescono a far brillare ancora, nei giovani, quella sete di sapere che li anima, e che animava anche il somaro Pennac. Un po’ ricordi, un po’ riflessione pedagogica, un po’ critica e un po’ affettuosa riconoscenza, il libro si chiude su una metafora bellissima a rappresentare come Pennac, e tanti come lui, interpretano il lavoro d’insegnante: una rondine stordita dal vetro contro cui ha sbattuto, che bisogna aiutare a volare di nuovo.
Da non credere! Nessun commento per un libro così e per una recensione così… ma!!
Sono d’accordissimo con la recensione: Pennac è sempre un grande scrittore, sia di romanzi che di libri in genere. E quest’ultimo suo libro lo dimostra, anche per l’accume che porta nell’entrare nel mondo della scuola e non dire le esolite banalità.