Talvolta è complicato individuare le ragioni per le quali una cosa piace. Probabilmente è più semplice riconoscere a prima vista le motivazioni per cui qualcosa non piace: che sia il sapore amaro o più piccante del solito, o un rumore dissonante, o una immagine poco armoniosa, o altro, si tratta spesso di una caratteristica che non è conforme alle nostre aspettative oppure al nostro gusto e che di conseguenza si riesce ad isolare ed evidenziare.
Nel caso opposto, però, non sempre il procedimento è così ovvio. E allora capita che si legga un libro, e leggendolo vi si trovino ingenuità , avvenimenti che parrebbero al limite del verosimile (però, chissà , per non saper leggere né scrivere verosimili potrebbero pure esserlo), personaggi e comportamenti di fronte ai quali al limite non si può che sospirare. Capita nondimeno di proseguire con gusto, perché dopotutto le pagine vanno via a sorsi – e copiose, – senza fatica, e in un modo o nell’altro ci si ritrova alla fine senza quasi essersene accorti. Di più: ci si ritrova alla fine con quel sorrisino un po’ ebete di quando ci si sente rilassati e in pace col mondo, pronti a godere di qualche dettaglio ma senza la necessità di pretendere nulla.
Max Skinner lavora a Londra in una grossa compagnia finanziaria; sta per portare a termine un grosso affare, grazie al quale spera in un premio che gli consenta di ripianare i propri debiti col sarto e lo scoperto in banca. Ma una mattina, di punto in bianco, viene licenziato. Combinazione vuole che, quello stesso giorno, riceva una lettera notarile che gli comunica la morte del suo vecchio zio residente in Provenza, di cui Max è l’unico erede. Parte dunque per la Francia, con l’obiettivo di prendere possesso della villa che gli è appena toccata di diritto e degli ettari di vigneti che la circondano.
Come le bambine sognano il principe azzurro (e notoriamente non smettono neanche ben oltre la maggiore età ), così lo chateau con vigne che tocca in sorte a Max Skinner – con lo stile di vita tranquillo e godereccio che implica – è una specie di paradiso terrestre da uomo adulto, particolarmente quando questo è condito da presenze femminee che a questo stile di vita aderiscono.
Sarcasmo a parte, Un’ottima annata è, in nuce, questo. Condito da sottotrame a serietà variabile, la storia e la sua gestione di per sé non offrono colpi di genio, caratterizzazioni straordinarie o qualità artistiche particolarmente significative: ma c’è un qualcosa nel racconto, nell’atmosfera, negli spazi bianchi tra le righe, che lo rendono un autentico gioiellino. Non solo una lettura godibile: ma una lettura godibile che lascia un precipitato, che si ritaglia discretamente uno spazio felice nella memoria al quale ritornare, alla bisogna, con un sorriso.
Un effetto qualitativamente analogo, anche se forse di minore intensità , genera il film omonimo diretto da Ridley Scott nel 2006. L’intreccio è sensibilmente semplificato, e così i personaggi che sconfinano nello stereotipo. Ma qualcosa – una combinazione di regia, cast (non solo Russell Crowe in un ruolo da Hugh Grant, ma tutti i comprimari) e colonna sonora, almeno – ne fa un film estremamente piacevole, lieve, e che non stanca anche dopo ripetute visioni.
Giudizi
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Info utili
Titolo e autore originale: A Good Year, Peter Mayle
Titolo e traduttore italiano: Un'ottima annata, Barbara Bagliano
Collana, editore e anno: Gli Elefanti. Narrativa, Garzanti Libri, 2008
ISBN o ISSN: 9788811680840
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Film
A Good Year (2006)
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