E’ difficile, per me che leggo e scrivo fan fiction, che amo la letteratura, che sogno di pubblicare un romanzo, che, come tanti, tantissimi autori, vorrei vivere un’esperienza come quella vissuta da Lara Manni, è difficile recensire un libro del genere; soprattutto perché conosco benissimo il background di partenza di questa storia e ho anche avuto modo di conoscere alcuni dettagli.
Quindi, prima di tutto, vorrei fare i complimenti a una persona che, tra tutti noi, è riuscita a farcela partendo da una fan fiction.
La sensei – Rumiko Takahashi, nella fan fiction originale; la Sensei (o, ancora la Donna, in alcuni punti) semplicemente nel romanzo – sta per ultimare il suo ultimo lavoro: dopo dieci anni e mille capitoli (iperbole un po’ esagerata secondo me, perché, con i ritmi della pubblicazione giapponese, che al massimo può essere settimanale, in dieci anni si raggiungono cinquecento e poco più capitoli, non certo mille…) all’attivo, è giunta l’ora di mettere la parola FINE al suo manga. La donna è fiera del suo lavoro e dei personaggi che ha creato, indugiando con il pensiero sulla figura di Hyoutsuki, un demone bellissimo e freddissimo che, attraverso la conoscenza della piccola Aiko, mostra di avere un cuore. Tuttavia, all’improvviso, il Demone da lei tanto amato e sognato le appare davanti in tutta la sua fulgida bellezza: attraverso uno strano rituale, chiamato Esbat, lui è riuscito a raggiungere il nostro mondo per chiedere alla donna di cambiare il finale. Perché, quello che lei crede di aver inventato, è un mondo che esiste e che lei, con le sue storie, sta modificando. E lui, naturalmente, non ci sta. La sensei inizialmente è sconvolta, ma poi, lentamente, qualcosa scatta in lei: il personaggio da lei più amato esiste davvero. in un altro mondo. E l’unica cosa che desidera è poterlo rivedere ancora e ancora, non importa a quale prezzo.
Idealmente, è quasi possibile dividere in due parti il romanzo: nella prima, troviamo la storia della Sensei, di come essa arrivi alla consapevolezza di quanto sia tutto reale e la sua scelta di compiere un Esbat; nella seconda, invece, hanno maggior spazio i personaggi secondari e le conseguenze che la scelta della donna porta nella vita di altre persone, come anche nei risvolti della sua stessa storia.
Come Lara Manni, anche io ho letto e seguito ( e scritto su) Inu Yasha. E, per questo motivo, durante la lettura, mi è risultato difficile, e a tratti davvero impossibile, riuscire a pensare che “questa è una cosa diversa”. Mentre leggevo di Hyoutsuki, la mente correva a Sesshomaru; quando si parlava di Moeru e della sua spada, io pensavo immediatamente a Inu Yasha e alla sua fedele Tessaiga; Aiko era Rin, e basta; Yobai, Naraku.
Ed è forse anche per questo motivo che ho un po’ storto il naso, quando ho letto delle modifiche che andavano fatte alla storia per renderla un’originale e della trama finale de “La leggenda di Moeru†– nonostante l’autrice stessa dia ampia spiegazione, nei primi capitoli del romanzo, della scelta di tanti luoghi comuni. Inoltre, non mi sono trovata d’accordo con alcune scelte fatte dall’autrice, come per esempio mettere in bocca a Yobai alcune citazioni colte, provenienti da autori greci e latini. Certo, i personaggi dicono di provenire da un mondo che non ha tempo e che quindi, interagendo con la nostra dimensione, era possibile per loro impararne qualcosa; eppure, ho trovato questi momenti come una sorta di sfoggio letterario che non ho molto gradito. Mi è piaciuto invece l’utilizzo di spezzoni di canzoni, mai messi a caso, ma sempre adattati alla situazione in cui il personaggio si trovava, anche se, ammetto, avrei gradito qualche brano più “locale”, vista l’ambientazione giapponese dell’opera e l’importanza che gli stessi danno alla propria musica.
Ho trovato molto interessante il modo in cui l’autrice, passando con estrema facilità da un personaggio all’altro della storia, sia riuscita a scandagliarne l’animo e i pensieri: lentamente, ma inesorabilmente, assistiamo in tutti alla crescita della follia, del desiderio – sessuale, come di qualsiasi altro tipo – fino alle conseguenze più estreme a cui tutto questo può portare.
E’ facile riuscire a comprendere i sentimenti che si agitano nei protagonisti – ed è questo l’elemento che mi ha più piacevolmente colpita -: poter incontrare un personaggio nato dalla propria fantasia, non è forse uno dei sogni più grandi di qualsiasi autore? Cosa succederebbe se qualcuno si trovasse nei panni della Sensei?
Anche gli altri personaggi non sono da meno: è facile riuscire a immaginare la vita di Ivy mentre chatta su msn con gli amici, che posta su forum, che legge in inglese i capitoli del manga appena uscito in Giappone e commenta le nuove avventure dei personaggi con un “Lo sapevo!” “Ma l’autrice è impazzita?”, quasi ci si sentisse partecipi della stesura della storia; me la sono immaginata davanti al pc, esattamente come tanti altri utenti della rete (tra cui anche io), fan di qualsiasi opera, non soltanto di manga. Passione, la loro, che a volte finisce per sfociare in una malattia vera e propria: ed è questo il caso degli otaku – nel senso letterale del termine e non nell’accezione di “fan” a cui siamo abituati noi in Italia – di quelle persone, cioè, che vivono ormai attaccate al computer, dalla mattina alla sera, senza più una vita sociale; una piaga nata in Giappone, ma che si sta diffondendo in tutto il mondo.
A livello di narrazione, nonostante, ripeto, abbia trovato il tutto molto credibile e vicino, sono rimasta un po’ delusa dalla parte finale del romanzo: ci sono passi in cui non è ben chiaro chi stia parlando, proprio perché il passaggio da un personaggio all’altro diventa veloce, velocissimo e non sempre questo viene chiaramente espresso; vi è poi il personaggio di Ivy che, per quanto abbia molto apprezzato (come mi è molto piaciuto il personaggio di Max, l’unico in questa storia a mantenere i piedi per terra e a dimostrare che essere fan di una serie e frequentatori della rete non significa necessariamente dimenticarsi del mondo), non ha avuto tutta quella ragione d’esistere che invece sembrava dovesse avere. Per farla breve, se fosse apparsa soltanto nell’ultimo capitolo, il risultato finale non penso sarebbe cambiato molto.
Per quanto riguarda lo stile, ammetto candidamente che a me non piace. Gusti, in questo caso, e sui gusti è inutile discutere. Sono una fan di Umberto Eco e Victor Hugo, amo i periodi lunghi e contorti, per questo non sono riuscita ad apprezzare un periodare così frammentato e frasi così brevi. Certo, a volte questa tecnica è risultata estremamente utile, soprattutto negli attimi di maggiore suspense; ma a volte, l’ho trovata troppo ingerente e anche un po’ inutile e non mi sono trovata neanche molto d’accordo sull’utilizzo di alcuni segni di interpunzione.