Pubblicato intorno al 1847, con lo pseudonimo di Currer Bell, “Jane Eyre” possiede della sua autrice, Charlotte Brontë, la stessa vitalità, schiettezza e passione, qualità che scorrono dall’inizio alla fine del romanzo, di stampo sociale ma che assume ben presto i tratti del romanzo psicologico. La forma autobiografica del racconto, narrato dal punto di vista di Jane Eyre, permette, infatti, al lettore di entrare direttamente nella ‘testa’ della protagonista, riservandogli un posto in prima fila per cogliere con gusto e finezza, innanzitutto, gli aspetti più propriamente sociali della narrazione, come il contesto storico, ma soprattutto il microcosmo psicologico della protagonista, ricco di sfaccettature e al col tempo così ben definito e delineato. L’accuratezza nella descrizione dei personaggi, mai pedante, tuttavia arguta e appropriata nella scelta di un attributo anziché di un altro, la stessa descrizione dei luoghi, della natura, del tempo atmosferico o le osservazioni puntuali ed essenziali sulla società infondono al romanzo un’impressione di veridicità, in qualche modo suggellata anche dai numerosi appelli che la protagonista rivolge al lettore disseminati tra le pagine del romanzo.
Tuttavia, il carattere autobiografico del racconto non si esaurisce nello stile, ma è possibile riscontrare numerosi parallelismi tra Jane Eyre e la stessa Charlotte Brontë: sono entrambe orfane, anche se Charlotte solo di madre; la domestica Bessie del romanzo racconta favole e leggende proprio come la servetta Tabby che crescerà l’autrice e le sue sorelle; l’istituto di carità di Lonwood del romanzo ha molto in comune, comprese la severità e le punizioni umilianti riservate alle sue povere allieve, con la “scuola per figlie di pastori poveri” che la Brontë frequentò durante l’infanzia; Jane sceglierà di diventare un’istitutrice – all’epoca, unico lavoro considerato dignitoso per una donna priva di dote – proprio come Charlotte, ma con esiti ben diversi.
Quindi, l’autrice sceglie di raccontare la vita – dall’infelice infanzia presso la famiglia Reed al raggiungimento della maturità intellettuale e spirituale – di una ragazza come tante: Jane non possiede una bellezza straordinaria e non è neanche così intelligente; è povera e orfana e, apparentemente, senza molte prospettive di vita. Eppure, Jane è insoddisfatta del suo status sociale, ma non per questo si limita a lamentarsi o peggio, a rassegnarsi. Anzi, è lei stessa che mette un’inserzione sull’Araldo locale per offrire i suoi servigi da istitutrice ad una famiglia, è lei stessa che sceglie di fuggire da Thornfield e infine, scegliere l’amore, quello vero, anziché un’esistenza vuota di sentimenti. Ma cos’è che Jane insegue con così affanno? Lo esplicita lei stessa, poco prima di partire per Thornfield, verso una nuova vita: «Mi stancai in un pomeriggio della metodica esistenza che conducevo da otto anni. Desideravo la libertà, anelavo ad essa e pregai per ottenerla […] implorai un cambiamento, uno stimolo». Dunque, è la libertà che cerca Jane, ribellandosi contro i pregiudizi sociali, religiosi e di sesso del suo tempo, come del nostro. Perché siamo noi i fautori del nostro destino.